Nel 1994 il Festival di Santarcangelo iniziava un nuovo percorso teatrale. In continuità con il passato, ma con una portata di riflessione profondamente innovativa, la direzione artistica del Festival passava a Leo de Berardinis, che lo avrebbe diretto fino al 1997.
Il 1994 per la storia d’Italia è stato un anno campale, per la storia del teatro contemporaneo è stato l’inizio di una prova di storicizzazione di istanze poetiche, visioni, questioni etiche e estetiche sul rapporto tra teatro e mondo, teatro e umanità, che si sono poi appuntate nei quaderni di Santarcangelo diretti da Gianni Manzella.
Nei pressi del Teatrino della Collegiata a Santarcangelo c’era un ristorante e, come spesso capita nei paesini emiliano-romagnoli, sotto il ristorante i resti di una vecchia cantina, una grotta.
A poche persone per volta era concesso di scendere nella grotta per entrare in un allestimento, in un’istallazione d’arte. Dal caldo afoso della temperatura estiva si passava piano piano all’umidità dei sotterranei, al rumore d’acqua, alla luce fioca e, scese le scale strette, si arrivava in un vano, ampio, quadrato: un altro luogo.
Sul pavimento di pietra una distesa di piccole tessere azzurre, foglietti di cartoncino di circa due centimetri dipinti di un azzurro cangiante, su alcuni la forma semplice di un calice argentato. Messi in ordine, uno accanto all’altro sul pavimento, sugli scalini laterali della stanza, nelle nicchie. Dal riverbero luminoso azzurro del primo vano la grotta proseguiva verso un lungo corridoio perduto verso le viscere chiuse del sotterraneo, e nel corridoio una distesa di piatti d’alluminio, quelli usati negli ospedali psichiatrici, o nei tempi di guerra. Piatti vuoti che si perdevano verso l’ultimo buio, verso il rumore d’acqua di una qualche faglia sottostante. Solo su alcuni una data, di nascita e di morte.
Quell’istallazione, creata e curata da Loredana Putignani, artista visiva, scenografa, costumista teatrale, autrice, rimase viva per dieci giorni, i dieci giorni del festival. Poi non più. Gli spettatori, le persone, la attraversavano, provavano a interagirci, a spostarne qualche piatto, una tessera, a portarsi dietro una sensazione, una condizione intima, individuale e soggettiva. Ciascuno con il suo vuoto o con il suo pieno.
Il contesto creativo dell’autrice, anch’esso soggettivo, nasceva invece da un elemento preciso: il ringraziamento, il commiato, l’addio e il dolore per la perdita di una persona amata, compagno d’arte e di vita. Pochi mesi prima era morto Antonio Neiwiller, straordinario attore e artista del teatro contemporaneo e del secondo ‘900.
A saluto ed epitaffio di quella presenza viva e folgorante del teatro italiano e del pensiero, un artista donna aveva concepito così una distesa di piatti luccicanti e vuoti. Una distesa di oggetti d’uso quotidiano, casalingo, storicamente e socialmente consueti per una donna, strumenti di un alfabeto affettivo secolare che, nel dover testimoniare al presente un’assenza, si sublimavano nella scelta della loro materia a-strumentale d’alluminio e nella loro disposizione “inutile” di fila, distesa, tappeto. Il corpo tappeto dei piatti come corpo tappeto di una vita e di un sentimento, metafora di un ordinario divenuto straordinario e ineffabile, evocazione di una relazione umana che utilizza l’alfabeto di genere per farsi solo parola emotiva. Visione.
Ecco una visione che non è possibile definire attraverso gli strumenti della critica se non facendone a propria volta ulteriore visione. Non era interessante nella partecipazione a quell’installazione di Loredana Putignani conoscere chi l’avesse preparata all’accoglienza dei visitatori, né le vicende private e artistiche che avevano portato alla creazione di quella distesa di vuoti. L’autrice era sottratta all’azione, presente ma senza che se ne conoscesse l’identità e la storia. Più che il genere dell’autore era, al più, il genere dello spettatore che ricreava in sé una propria percezione di quel mondo sotterraneo e luccicante così disteso. Non l’opera d’arte a parlare un’ unica lingua, ma il fruitore semmai a tradurla secondo la propria soggettiva capacità di ascolto, secondo il proprio genere emotivo.
C. V 2011