esercizi di immaginazione
PF 1 trittico[638]

Verso la fine degli anni ’90, in concomitanza con la rinnovata istituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, si cominciò a parlare del rapporto tra teatro e impresa. Eravamo a Volterra, tra attori, organizzatori e critici si provava a fare differenza tra impresa teatrale e teatro d’impresa. Si provava a giocare con le parole anche per esorcizzare l’avvento di una parola nuova nel lessico comune.  

Impresa teatrale piaceva di più, richiamava il senso dell’avventura, della straordinarietà, della partenza. I meridionali presenti all’incontro ci mettevano anche una certa enfasi nel pronunciare la parola, la ridicolizzavano, diventava “’na bella impreeesa teatrala”. Si cercava così di conservare il senso del teatro, di non snaturarlo pur rendendosi conto che il sistema richiedeva un salto, una aziendalizzazione.

Di quel gioco di parole poi non se ne fece più niente, rimase per tutti la definizione di teatro di impresa, il complemento di specificazione specificava.  

Ancora prima il gioco di parole aveva riguardato la differenza tra professione e professionismo. Avevamo imparato a quei tempi che professione viene da professare, esercitare costantemente, mettere al centro della propria vita lo studio e l’applicazione degli strumenti e delle competenze per seguire una direzione che avrebbe informato l’intera vita. Poi anche quella bella parola diventò un ismo, fu scambiata per qualcosa di misurabile attraverso un riconoscimento esterno. Il costante esercizio del professare fu scambiato per il numero di giornate lavorative versate nelle casse dell’allora Enpals, la centralità della vocazione fu scambiata per l’esclusività reddituale che ne derivava.

Sono passati quasi trent’anni da questi ricordi per scoprire oggi un mondo di lavoratori professionisti che non professano e di lavoratori che professano senza poter essere considerati professionisti perché il loro reddito non è misurabile, quantificabile. Quelle giornate contributive che avrebbero dovuto raccontare un’impresa, raccontano un’aziendalizzazione che ha lasciato fuori dai propri cancelli la linfa vitale di cui si è nutrita. Le prove non pagate o pagate forfettariamente a dispetto del Contratto Nazionale (che pure ha introdotto importanti innovazioni in termini dei diritti dei lavoratori dello spettacolo) oggi hanno lasciato indietro tutti quelli che non hanno raggiunto le trenta giornate per poter accedere a un sostegno economico che non somiglia affatto a un reddito, mentre altri, pur avendo provato molto meno magari quel reddito ce l’hanno, perché qualcuno si è incaricato per loro di versare soldi nelle casse dell’Inps pur di raggiungere i parametri quantitativi che permettono l’accesso al Fondo Unico dello Spettacolo o ai contributi di chissà quale altro fondo.

I Teatri Stabili con le loro programmazioni già fatte, andate in stampa, campeggianti sui manifesti, ma non ancora contrattualizzate hanno capito subito, prima del governo, che questa pandemia avrebbe portato a una chiusura delle attività e si sono dati da fare ad annullare promesse e impegni verbali e scritti prima che le compagnie potessero reclamare diritti.

Il teatro si è perso, l’impresa è salva.

Ma chi la compone questa impresa? Non solo gli artisti, ma anche gli organizzatori, i tecnici, gli amministratori, le maestranze, i direttori di scena, gli esperti di comunicazione, di social, gli autonomi con partita IVA. Tutti lavoratori che dovrebbero avere una sola legislazione ma a cui la legislazione non è in grado di dare risposte uniformi perché c’è differenza tra un teatro stabile e una compagnia, tra un piccolo gruppo e un circuito, tra una compagnia riconosciuta e una non riconosciuta, anche quando quei lavoratori fanno lo stesso lavoro, con le stesse competenze, energie, passioni, studi, per la stessa durata di tempo durante l’anno.

Era questa la grande impresa che ci aspettava? La partenza, l’avventura di allora? Gli Enti locali oggi, per salvarsi la pelle e salvare energie che richiederebbero uno studio attento e aperto della crisi in corso, applicano parametri di salvaguardia che vanno bene solo per gli stabili. La Regione Puglia, in ritardo di tre anni sui pagamenti, accelera la corsa delle rendicontazioni e nel frattempo pensa a bandi nuovi intenzionalmente più agili ma per cui ci vorranno comunque tempi lunghi e fidejussioni. Si promuove l’accesso al credito che sarà il debito di domani. Tutto purché non si tocchino i grandi eventi, quelli che ci hanno resi famosi nel mondo. E nel frattempo dov’è il pubblico? Gli spettatori disposti a partecipare a dibattiti, a scuole di visione, quelli disposti a ospitare il teatro in casa per costruire una relazione diversa, quelli disposti a viaggiare per uno spettacolo che nella propria città non sarebbe arrivato. Quali misure per riconoscerli fuori dai numeri dei borderò?

Il Contratto Nazionale aveva quasi spudoratamente introdotto la formula del compenso base mensile, non è che per caso potrebbe assomigliare a quel reddito di esistenza che si ha tanto paura di nominare e che invece liberebbe il campo dal tentativo forsennato di dichiarare un lavoro pur di esistere? E magari sarebbe un riconoscimento alla formazione continua di cui ciascun essere umano ha diritto? L’Art Bonus applicato anche alle piccole iniziative culturali o la defiscalizzazione della spesa culturale degli spettatori potrebbe essere un incentivo alla partecipazione ma anche un modo per far emergere tanto lavoro non dichiarato, nero.  I soldi che si spendono per i grandi eventi volti a un turismo di rappresentazione identitaria dei genius loci locali, oggi dovrebbero essere destinati davvero a quello che sarebbe un grande evento: il riconoscimento della qualità e del merito di chi progetta, realizza, interpreta, l’impresa di costruire cittadinanza, visione, immaginazione senza fingere quantità falsate quando non addirittura falsificate. Gli artisti stessi così informati, formati ad essere imprenditori di se stessi, dovrebbero abdicare da una misura che è altrui, non del teatro. I bandi, se proprio necessari, dovrebbero contemplare anticipazioni per step di realizzazione e non consuntivi a posteriori che richiedono impegni bancari e sviluppo di interessi passivi. I politici deputati ad amministrare la cultura dovrebbero aprire tavoli di confronto e di ideazione dal basso facendo pace con l’idea che un assessore non è un direttore artistico, ma semmai un punto di sintesi e di prefigurazione di ciò che un territorio è e può diventare. Un Ministero, un Ente pubblico virtuoso dovrebbe sanzionare gli scambi, sanzionare il ritardo nei pagamenti dei cachet, accertare la veridicità non delle fatture ma delle pratiche. Si dovrebbero abbattere quelle gerarchie tecniche che fanno in modo che uno spettacolo abbia valore documentale se fatto in un luogo deputato e riconoscere l’importanza dei moltissimi presidi culturali, dei piccoli spazi non deputati, non riconosciuti, non finanziabili dove le comunità di artisti e spettatori costruiscono la vita del teatro. Crederci davvero, crederci per tutti, questa sarebbe una vera impresa.

C.V 2020